Riflessioni

L’evoluzione degli hashtag (e le “bolle” come status symbol)

Chris Messina, l’inventore degli hashtags, ripercorre in un suo post la genesi di questo artificio tecnico-linguistico diventato un potente simbolo del digitale sociale. Le sue riflessioni lo portano a considerare l’hashtag un attivatore di invito, partecipazione e sfida. Nato con l’intento di rendere i contenuti sparsi su twitter riconoscibili, classificabili e ri-aggregabili secondo argomento, questo antico simbolo di punteggiatura reinventato ha trovato in altri usi la sua ragion d’essere e la chiave del suo successo. Messina cita l’umorismo (#WhyImSingle), i tic non verbali (#SMH), la divulgazione (#AutocorrectFail), la proprietà (#MyPetLizard), l’identificazione di eventi e, naturalmente, il suo utilizzo come vessillo interpiattaforma per le battaglie sociali, vedi #MeToo e #blacklivesmatter.

In un mio commento al post ho scritto che secondo il mio parere gli hashtag hanno avuto più successo in termini di auto-sintesi (e auto-evidenziazione) dei contenuti che in termini di reperibilità dei contenuti stessi. Su richiesta di Messina ho approfondito il concetto.

All’alba degli hashtag ho pensato che sarebbero stati utili per raccogliere contenuti su un argomento specifico e/o per creare gruppi/forum “meta-virtuali” anche in un ambiente che non includesse tali spazi comuni (come twitter) o che comprendesse il Web nella sua interezza.
Ma il successo degli hashtag ha portato effetti collaterali: se un hashtag è troppo generico, c’è troppo rumore di fondo. Se troppo specifico, non riesce a catturare l’essenza del contenuto.
Funzionano più come evidenziatori, consentendo nei nostri frenetici scrolling (ad esempio) di identificare rapidamente i contenuti per noi pertinenti.
Ed è vero che gli usi creativi citati da Messina, sono, per me, i più riusciti per gli hashtag: ad esempio, #metoo o #blacklivesmatter sono slogan con il più alto grado di compressibilità possibile (una sorta di “limite di Shannon”).

Riflettendo meglio, ho aggiunto che, in altri casi (su Instagram ad esempio), può esser vero il contrario: un gran numero di hashtag crea spesso una descrizione “aumentata” di un contenuto sintetico “per natura” come un’immagine.

Nota a margine: com’è più facile interagire sui temi del digitale o avere qualche cenno d’attenzione dagli anglosassoni piuttosto che da esperti o presunti tali nostrani. In Italia, rare eccezioni a parte, prevale un atteggiamento spocchioso e snobistico (“ma chi è questo?”) che fa dipendere il contenuto e l’eventuale azione da chi lo veicola, non dal suo (eventuale) valore intrinseco. Come ho scritto in uno scambio con Vincenzo “Vincos” Cosenza (una delle “rare eccezioni”perpetuatesi nel tempo): nel multiscroll quotidiano guardi prima il nome poi il contenuto. Solo se il nome ti dice qualcosa, in qualsiasi senso, interagisci altrimenti lo ignori e aspetti che, magari, lo stesso contenuto venga rilanciato da qualcuno “conosciuto”.

 

Foto di Michael Coghlan CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons